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Ecco perché io sono molto perplessa sulla condanna che ha colpito don Marco

2013-04-12 13.29.12ARESE – Quando penso a don Marco, io che l’ho conosciuto nella sua veste di sacerdote,  penso a un bambino fra i bambini. Così mi viene di definirlo. Me lo ricordo mentre in “San Bernardino” era capace  di interrompersi dal pulpito per salutare dei piccoli che magari la volta precedente erano assenti perché malati. O quando chiamava una puerpera sull’altare e orgoglioso mostrava ai fedeli il neonato. O quando ne consolava qualcuno che piangeva prendendolo in braccio e continuando così la celebrazione.

Don Marco non si sconvolgeva se i piccoli strillavano, né se dietro i banchi le bambine giocavano con le bambole.

Non era capace di grandi prediche. Ma amava i poveri del Brasile e quando ne raccontava le peripezie e i disagi riusciva a commuovere e in chiesa non mancava mai di ringraziare gli aresini che lo aiutavano nella sua opera con le adozioni a distanza. Alla fine della messa, fuori sul sagrato, distribuiva le caramelle a tutti, bambini e genitori compresi. A Natale c’erano anche i panettoncini e a Pasqua le colombine.

Dalle famiglie con bambini era invitato a pranzo e a cena. Molti, negli anni,  sono stati da lui battezzati, comunicati e cresimati. Molti sono stati i chierichetti che lo hanno servito sull’altare. Molti sono stati i bambini che ha aiutato. L’espansività e la generosità erano un suo modo di essere e molti aresini gli volevano bene proprio per questo.

In Tribunale don Marco si è difeso fra le lacrime. Leggo dalla sentenza di I grado: “La bambina era qua, gli ho messo la mano davanti al sederino (per sospingerla verso le caramelle e incoraggiarla, è scritto qualche riga sopra) e l’ho baciata, ha preso la caramella e se ne è andata”. Parole che in dibattimento sono state interpretate come una “eccessiva confidenza” e come un’ammissione da parte di don Marco di “aver assunto…un comportamento senz’altro scorretto e ingiustificato” rispetto all’accusa di abuso, ben più grave, rivoltagli nel 2007 dal padre e dalla nonna di una bimba di appena sei anni all’epoca dei fatti. Don Marco non fu creduto e a oggi  pende ancora in Cassazione il ricorso del suo avvocato Mario Zanchetti. Nel frattempo è morto proclamando la sua innocenza.

Possono esserci dei ragionevoli dubbi per credergli? Può essere che don Marco sia stato vittima anche di un clima generalizzato scatenatosi contro la Chiesa sull’onda degli scandali americani? Può essere che questa vicenda sia stata in un qualche modo esagerata o artefatta e strumentalizzata? Proviamo a pensare solo per un attimo al dramma di questo sacerdote se l’infamante accusa rivoltagli fosse stata  infondata. Ci sono degli elementi che riletti possono dare una chiave di lettura diversa a questa vicenda? Forse sì.

Proviamo ad analizzarli. Don Marco aveva un ufficio sul sagrato della Chiesa SS Pietro e Paolo ricavato in un negozio. Quando era nel suo ufficio, don Marco, lo si poteva scorgere dalla vetrina in bella vista dietro la scrivania. Possibile che in quella situazione un genitore, per lo più in compagnia di altre persone, non si accorga di quanto stia avvenendo al proprio figlio sotto i suoi occhi?

Tra una prima versione e una seconda, la bimba prima indossava dei jeans, poi la gonna. Complicato slacciare e abbassare in pochi attimi dei pantaloni senza essere visti da fuori del negozio e lasciar andar via la bimba mezza svestita, che riferiva senza esitazione di “essersi rivestita da sola” (è il racconto riportato nella sentenza,ndr), sempre senza che alcuno si accorgesse di nulla.

La denuncia viene fatta alle autorità oltre tre mesi dopo il fatto, che viene ricondotto al 24 febbraio 2007 Perché lasciar passare così tanto tempo se la bambina aveva raccontato alla nonna quanto accadutole appena l’aveva incontrata? La difesa parla di un tentativo di ricatto monetario a danno dei Salesiani cui l’Ordine non avrebbe ceduto invitando il padre a sporgere pure la denuncia.

Ma allora, sorge la domanda, la bimba può aver mentito consapevolmente? No. Secondo la difesa di don Marco e la sua consulente, semplicemente  “potrebbe aver mal interpretato un gesto esageratamente espansivo dell’imputato, averlo riferito ai suoi familiari allertandoli ingiustificatamente, finendo così per costruire un falso ricordo che poi con convinzione avrebbe riportato alla Polizia”.

Si entra nel tecnico e il dispositivo finisce per basare le ragioni della condanna prevalentemente sulle tesi dell’accusa, abbondantemente in un  battage mediatico sulla stampa locale e nazionale, in internet e sulle televisioni ben prima della sentenza. Una condanna già scritta senza appello.

Ombretta T. Rinieri   

("Il Notiziario" 22 marzo 2013 – pag. 69)

 

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