Bravi lavoratori, scarsi manager. Più si cerca di capire la crisi e più questo appare chiaro. Specie se è vero che «la mancata tutela del Made in Italy costa al Paese almeno 300mila nuovi posti di lavoro solo nell’agroalimentare e supera i cento miliardi l’anno di mancato fatturato», come rivela una stima di Coldiretti e delle associazioni dei consumatori e degli ambientalisti. Lavoriamo per il mercato, ma facciamo difficoltà a gestirlo. E, quando accade che comanda lui, ci troviamo 30enni che non riescono a stabilizzarsi, che forse lo faranno tra dieci anni ma che, se le cose non cambiano, rischiano di restare figli anche più a lungo. Di genitori 50enni, che arriveranno a 60 e che non riusciranno ad andare in pensione (vedono la soglia scivolare sempre più avanti) ma che escono dal ciclo produttivo, che si alimenta di industrie portate all’estero, contratti atipici, apprendistati. Che rischiano di costare meno in denaro, forse, ma molto di più in perdita di competenze. Tre imprese marchigiane su quattro non assumeranno nessuno fino all’anno prossimo. Domanda in calo o attesa di acquisire nuove commesse le ragioni della previsione del presidente regionale Unioncamere, Alberto Drudi, che parla di una difficile situazione del mercato del lavoro nelle Marche. Come in tutto il centro Italia, d’altra parte. Per questo si invoca «un salto di qualità – dice al nostro giornale il segretario Uil dell’Umbria Claudio Bendini -, una scelta coraggiosa da parte delle istituzioni. Serve far parlare di più università e impresa. In Umbria, per esempio, ci sono buoni laboratori per nano e bio tecnologie. Serve andare verso un nuovo modello di sviluppo, che possa garantire al territorio la capacità di produrre ricchezza. L’Umbria ha vissuto di pubblico: di dipendenti pubblici, ma anche di appalti pubblici. Questo modello sembra proprio essere fallito…
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